“Forse tutti i nostri pezzi mancanti e le nostre sfortune sono in realtà delle
benedizioni che fanno di noi quelle persone particolari che siamo”
James Hillman
Anni fa un paziente che seguivo e che aveva alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza mi disse che il motivo per cui per tanto tempo era andato avanti ad usare droghe e a rovinarsi la vita era che aveva sempre cercato “l’incredibile piacere che ho provato una delle prime volte che mi sono fatto”.
La sua ricerca di quel singolo momento di estasi gli era costata un’incredibile serie di sofferenze e di stenti finché, al fondo della spirale, si era accorto che la speranza era vana: non avrebbe mai più trovato il soggetto che aveva vissuto il momento e non sarebbe più stato (parole sue) l’oggetto di tanta grazia!
Ho incontrato la stessa brama e la stessa cocciutaggine in tanti pazienti e con loro mi sono ritrovato a fare il lavoro opposto di quello che si fa con chi soffre di depressione. Mentre con questi si cerca di riaccendere la speranza e di trovare qualcosa che possa attivare il desiderio, con gli altri il compito diventa quello di spegnere la speranza e togliere dall’orizzonte l’oggetto: ciò che disperatamente (nel senso di “con fin troppa speranza”) il soggetto va cercando.
E’ una sorta di lavoro contro natura perché la speranza è figlia dell’amor proprio e non è facile convincere la pancia di chi ha fame e la mente di chi cerca qualcosa che sa/crede che possa davvero cambiare la sua vita e riempire il buco una volta per tutte.
Ed è un lavoro sul confine tra Eros e Thanatos perché è difficile in questi casi distinguere la spinta verso la vita dal desiderio di estinzione: non è facile convincere chi in un gesto, in una sostanza o in una relazione cerca il piacere e la soddisfazione di un bisogno profondo, che lì, in quell’oggetto, c’è… un vuoto che ribadisce l’insoddisfazione e l’impossibilità della pienezza.
Ed è un confine così interessante: un posto in cui l’intensità rende piacevoli cose dolorose e attraenti certi stati da cui bisognerebbe scappare e che, invece, vengono ripetuti con un godimento che è… così vicino alla sofferenza.
Il cibo nella bulimia, la sostanza stupefacente nelle addiction, il cosiddetto amore nelle relazioni di dipendenza (quelle in cui ci si ostina ad inseguire un partner impossibile o maltrattante), l’orgasmo nella ninfomania: tutti questi oggetti stanno sul confine e diventano l’Oggetto, ciò per cui vale la pena sperare anche a costo di impazzire.
E’ su quel confine che ci si può accorgere della doppiezza dell’oggetto, del suo essere, cioè, sempre pieno di soggetto: pieno di ciò che la speranza riversa dentro ad esso, pieno delle proiezioni che lo investono.
Aveva ragione Nietzsche quando diceva di amare nell’altro le proprie speranze ed è chiarificatore questo pensiero del Leopardi che nello Zibaldone dice: “All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Trista quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.”
Insomma: triste la vita di chi non sappia proiettare altro negli oggetti, di chi si limiti ad una sorta di percezione animale senza l’aggiunta di una colonna sonora fatta di desiderio, stupore, ricerca, intensità.
Ma che ne è delle cose come sono? Cosa succede se si ritirano le proiezioni, se si ferma la mente e si prova a vedere “l’oggetto e basta”?
Quanto bene può fare a chi è abituato a stare sul bordo in cui gli oggetti si riempiono di immaginazione, un ritiro dell’immaginazione e un bagno nella “realtà”? Esiste un mondo senza immaginazione? Un mondo umano, intendo? C’è un posto al cui ingresso si viene accolti con: “Signori benvenuti nel mondo della realtà: non c’è pubblico. Nessuno che applauda, che ammiri. Nessuno che vi veda, capite?” (DFW)?
Sarebbe probabilmente un inferno! Un posto senza speranza: un altro confine in cui le cose si svuotano di senso e gli oggetti diventano inutili e impenetrabili.
Eppure è un buon esercizio per chi sta troppo a lungo sull’altro bordo farsi, ogni tanto, un giro nel vuoto, provare a lasciare per un po’ la speranza e chiedersi: quanto di me sto riponendo nell’oggetto? Quanta della luminosità che mi sembra che irradi non è che un riflesso di ciò che io proietto o che qualcun altro (qualche bravo venditore) gli sovrappone?
E’ anche una meditazione sulla speranza e sulla sua ambivalenza, sul suo poter essere ciò che ci permette di credere nel mondo e, al contempo, ciò che ci lega fin troppo saldamente ad esso.
Fra i due estremi, fra il confine su cui le cose e le persone vengono amplificate e a volte gonfiate dalle nostre proiezioni e l’altro in cui un realismo quasi cinico priva il mondo da ogni illusione, c’è una vasta terra di mezzo piena di… ciò che è dato. Non sappiamo neanche bene cosa sia, visto che la mappa non è il territorio e che anche i più bravi esploratori stanno sempre dentro a qualche mappa, usano sempre un qualche tipo di strumento per leggere il mondo, le cose, le persone!
Si può, tuttavia, esercitarsi a riconoscere almeno le ripetizioni: quante volte non stiamo che ricalcando i nostri passi? Quanto giriamo in tondo con l’oggetto attaccato ad un prolungamento che sporge dalla nostra testa (come la carota per l’asino)? O com’è che nella smania di semplificare ci spostiamo verso l’altro inferno, quello in cui gli oggetti e le persone si svuotano, quello in cui smettiamo di crederci?
Ripetere è, spesso, non capire, continuare ostinatamente, procedere senza pensiero. E’ un modo sicuro per finire in uno dei due inferni e per soggiornarvi a lungo.
Interrompere la coazione a ripetere è un duro lavoro, a volte è il compito di un’intera vita.
Ma diceva bene Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”