“Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.”
Saffo
La dolce, amara, indomabile belva in grado di scuotere l’anima e sciogliere le membra ha mobilitato e mobilita una grande quantità di resistenze: difese, perlopiù vane, che tentano di arginare gli influssi del desiderio e di creare una serenità tiepida che riduca gli alti e bassi evitando quelle “pene d’amore” che distraggono da… il lavoro, lo studio, il dovere, i risultati, ecc.
Riflettevo con una collega su quante ore di seduta vengano dedicate ai dolori connessi alla relazione. Pazienti che lamentano amori non corrisposti, abbandoni, tradimenti, storie difficili, idealizzazioni e delusioni. Pasticci in cui Eros ha scagliato le sue frecce senza equità: troppo desiderio da una parte, troppo poco dall’altra; bisogni non soddisfatti, grandi fuochi che si affievoliscono, promesse spese e non mantenute. Tanta sofferenza non direttamente classificabile fra i cosiddetti sintomi psichici o psichiatrici ma, tuttavia, dolore che affligge e che non si può certo liquidare come contingente: qualcosa che passa da solo e di cui è inutile parlare, un sintomo che, siccome non è catalogato fra le patologie del Manuale diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali, si può lasciar perdere.
La sofferenza è sofferenza. Nel mio lavoro va ascoltata e compresa e questo tipo di sofferenza in particolare ha svelato ai terapeuti paesaggi della psiche in cui altri sintomi abitano, si formano, covano a lungo prima di manifestarsi.
Cosa c’è infatti di più intimo del desiderio e cosa più di una storia d’amore rivela l’anima, la parte più affettiva e sensibile della “mente”. Sono convinto che, nelle relazioni cliniche, (quelle che i pazienti fanno agli psicologi e quelle che poi questi riportano nei libri o ai congressi) il pudore con cui si censura ogni accenno all’afflizione che deriva dal desiderio, sia un indicatore di questa profondità: sembra di diventare pettegoli e morbosi se, invece di parlare di panico o di ossessione o di depressione, ci si perde nei meandri di Eros dove il dolore è quello di non essere visti, desiderati, colti nella propria essenza.
Eppure, siccome “E’ un piacere nascondersi ma è una tragedia non essere trovati” (Winnicott), questo pudore cede di fronte al bisogno di manifestarsi che sembra insito nell’intimo di ognuno di noi e tante terapie iniziano con un “Sono qui perché mi ha lasciato/non mi ama/non lo trovo/non c’è!
Sotto a questa descrizione che la censura tende a rimuovere come un vano lamento c’è… un’anima scossa. Quando chiedo ai miei pazienti chi altri abita nelle loro menti oltre a “io” vedo spesso uno sguardo titubante come se la domanda fosse poco sensata, ma appena chiedo chi alberga nel loro cuore, chi muove il loro desiderio….
C’è una storia nella mitologia indiana che narra dello scontro fra Shiva, uno degli dei più importanti del pantheon Indù, con Kama, un altro dio del tutto simile per attributi e qualità all’Eros dei greci. Si narra che Shiva fosse completamente assorbito dalla meditazione e intento ad accumulare Tapas, il calore dell’ascetismo, quella sorta di fuoco che brucia in chi è intento a raggiungere una meta su cui l’attenzione è totalmente focalizzata, un calore che deriva dalla sorveglianza dei sensi e dalla capacità di sostenere a lungo l’attenzione e l’intenzione. Esattamente come Eros, Kama, dio della passione, decide di disturbare il meditatore e lo colpisce con una delle sue frecce che risvegliano i sensi e scuotono l’anima. Per tutta risposta Shiva, che aveva raccolto tantissimo Tapas, con un solo sguardo incenerisce Kama: “Fu come un bagliore di lampo esploso dalla sua fronte, che cancellò il dio e le sue cinque frecce fiorite. Ma senza eros, si dice, il mondo non poteva sopravvivere. Shiva, convinto di ciò dagli altri dei suoi pari, con un altro sguardo resuscitò Kama dai morti. L’incenerimento di Kama è uno degli atti per cui Shiva è più noto, ma la resurrezione di Kama fu un’impresa ancor più sbalorditiva. Shiva aveva il potere, accumulato in anni di pratiche ascetiche, per bruciare l’eros con un solo sguardo; suddividendo il desiderio, si narra, in fiori, manghi, cuculi e api. La sua meditazione era così potente, il suo disprezzo per il mondo così grande che fu in grado di incenerire l’eros con un semplice cenno. Era l’eccellenza fra gli asceti. Tuttavia, quando Shiva affermò il suo potere e ridusse Kama in cenere, vide che lo squilibrio che ne era risultato non era sostenibile. Di conseguenza, dopo la resurrezione di Kama, Shiva emerse dalla sua meditazione e abbracciò la sua amata, Parvati.” (M.Epstein)
Proprio come nell’alternanza fra Eros e Thanatos in cui l’eccesso di una componente porterebbe ad uno squilibrio intollerabile, allo stesso modo l’eliminazione della passione vanificherebbe ogni sforzo meditativo. Anche in questo caso il significato del mito è quello dell’irriducibilità del desiderio e della necessità di una forza che lo compensi, bilanciandolo.
C’è, in questa danza fra desiderio e rinuncia, un senso profondo che contempla il dentro e il fuori, la concentrazione e l’estroversione, la separatezza e la comunione. L’abbraccio finale tra Shiva e Parvati rappresenta non tanto il ritorno del desiderio quanto la sua possibile espressione. Il mito racconta di un amplesso che durò mille anni reso possibile sia dalla passione che dal fuoco accumulato dall’esercizio di quel “nascondersi” di cui parla Winnicott.
Nascondersi è, in questo senso, saper stare con se stessi, saper essere separati. Può essere piacevole quanto il manifestarsi ed è ciò che ci permette di essere scossi senza andare in pezzi. D’altra parte “essere visti”, farsi trovare, è l’altra faccia della medaglia: il momento dell’abbraccio in cui le membra possono sciogliersi e la forma può essere persa. Entrambi i momenti sono necessari e non ci sarebbero un dentro e un fuori, un intimo ed un manifesto se uno dei due venisse a mancare. Senza uno dei due poli la concentrazione si risolverebbe in un narcisismo autistico mentre il desiderio diventerebbe un bisogno senza centro, un attaccamento isterico.
Né ci sarebbe quello che ancora Winnicott definì il sacro: quel senso di sé così intimo da sembrare intangibile e così forte da voler per forza venire allo scoperto.