“Bisogna avere il caos dentro per generare una stella che danza”
Nietzsche
In un celebre passaggio del suo libro “Viaggio al termine della notte” Celine, descrivendo il comportamento e lo stato d’animo dei suoi commilitoni durante la prima guerra mondiale, scrive:
“E tutto quello che si poteva caricare in spalla, se lo portavano con loro, i miei camerati. Pettini, piccole lampade, tazze, piccole cose futili, e perfino corone da sposa, ci passava di tutto. Come se ci fosse stato ancora da vivere per degli anni. Rubavano per distrarsi, per darsi l’aria di averne ancora per molto. Le voglie di sempre. Il cannone per loro era solo un rumore. E’ per questo che le guerre possono durare. Anche quelli che la fanno, che ci sono dentro, non se la immaginano mica. Una pallottola in pancia, avrebbero continuato a tirar su vecchie scarpe per via, perché potevano ‘ancora servire’. Come il montone che, sul fianco, in un prato, agonizza e bruca ancora. La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra.”
Tra l’inconsapevolezza, il comportamento cocciutamente aderente alla vita del montone e la malinconia e la tetra coscienza della fine degli “infelici della terra”, scorre una sorta di fiume: qualcosa che fluisce e, fra queste due rive, cerca il proprio corso.
Ci sono una rigidità estrema e un immobilismo cinico dalla parte di chi, come se avesse già visto tutto, non fa che immaginare la fine e c’è, dall’altra parte, una frenesia di vita che non possiamo chiamare vigore (non ha i muscoli e il tono del vigore), ma, piuttosto, attaccamento, mero insistere e ripetere, “brucare a oltranza”.
Caos in quanto mancanza del men che minimo progetto: l’essere gettati nella vita, invece di sapersi pro-gettare ( Heidegger), per il montone che si limita a svolgere il copione che gli è stato assegnato.
Un’immobilità necrofila che spegne sul nascere ogni tentativo, bocciandolo come inutile, per coloro che, dall’altra parte, sventolano il vessillo del conservatorismo depresso e deprimente: “non vale la pena… non c’è speranza”.
Sono gli estremi di un continuum: non si incontra mai una persona completamente rigida così come non capita, nemmeno se si ha a che fare con un individuo in piena crisi maniacale, di vedere un essere totalmente asservito al caos e al puro istinto di sopravvivenza, senza raziocinio e temperanza. Ma gli estremi servono per delimitare un contesto e per esemplificare, con un’iperbole, a volte, le tendenze che muovono, in una direzione o nell’altra, verso uno dei due poli patologici.
Se Eros si impadronisse completamente di una persona ci troveremmo di fronte ad una sorta di invasato: un satiro, una ninfomane, qualcuno affetto da una bulimia che mai si soddisfa e da una voglia che continuamente spinge alla ricerca dell’oggetto.
Ma se Thanatos avesse la meglio vedremmo una sorta di morto: un catatonico indeciso su ogni movimento, che trattiene ogni gesto, che è pervaso dal dubbio e afflitto da una vecchiezza che non si entusiasma. L’entusiasmo è, etimologicamente, l’invasione del dio (en-theos) e non c’è spazio in noi per nessun dio se ci lasciamo riempire fino all’orlo dalla mancanza di immaginazione che deriva dalla contemplazione della morte e da quella “analisi della realtà” che ci rende realisti e vecchi, cinici e un po’ morti.
Ciò che scorre fra gli estremi è ciò che in verità ci interessa.
E’ nella contaminazione, nel miscuglio fra Eros e Thanatos che la vita diventa possibile.
Sapere che entrambe queste forze agiscono in noi ci dà la possibilità di osservare cosa ci muove e l’opportunità di riconoscere, in questo stiracchiamento tra realtà e fantasia e tra concretezza e immaginazione, sia il veleno che l’antidoto, sia ciò che intossicandoci ci spingerebbe totalmente in una direzione, sia ciò che, inibendo gli effetti di un estremo, ci permette di non diventare irrimediabilmente asserviti alla tendenza che ci imprime.
“Eros è figlio di Caos, e ciò indica che da ogni movimento caotico può nascere la creatività…. Inoltre, l’eros è sempre teso verso le proprie origini nel caos, che cerca di ritrovare per rivivificarsi. Aristofane parla addirittura del loro accoppiamento. Eros cerca continuamente di creare quelle notti oscure e quelle confusioni che sono il suo nido. Si rinnova negli attacchi affettivi, nelle gelosie, nei colpi di fulmine e negli scompigli. Prospera vicino al drago.” (Hillman).
In questo tendere verso le proprie origini Eros va contenuto e, in qualche modo inibito.
Se non vogliamo assistere all’agire inconsulto che trasforma “l’amore” in possesso che uccide e la gelosia nel tentativo di controllare l’altro fino a renderlo senza volontà propria, dobbiamo trovare un antidoto, qualcosa in grado di controbilanciarne la forza senza ucciderlo.
La paura accompagna sempre l’amore e nel mito Psiche è terrorizzata da Eros, dal dio che potrebbe nel suo volo portarla troppo oltre ai suoi confini, troppo dentro alla follia. Ogni angelo è tremendo e di questo tremendo dobbiamo essere consapevoli. E in una certa misura lo siamo già, naturalmente.
Dice ancora Hillman: “L’amore eccita la paura. Abbiamo paura di amare e paura quando amiamo, compiamo propiziazioni magiche, ricerchiamo segni e chiediamo protezione e guida. Se è vero che il mondo ama chi ama, è anche vero che il mondo teme gli amanti per la distruzione che accompagna la loro gioia. Quando Psiche cade in preda al panico e vorrebbe affogarsi nel fiume, vien salvata da Pan, il quale è sia il panico che la caprigna coazione erotica. Thanatos e Eros non sono così disgiunti come Freud vorrebbe farci credere. Al livello più profondo della paura appare un eros, come nei frenetici accoppiamenti in tempi di terrore e guerra o negli incubi causati da Pan, che sono anche erotici. La paura sembra essere una necessità intrinseca dell’esperienza dell’eros; quando è assente possono essere nutriti seri dubbi sulla piena validità dell’amore.”
Senza paura l’amore diventa senza freni e, per ricollegarci al pezzo di Celine, senza consapevolezza, senza progetto, stupido e animale.
Come quello di chi non teme di far male e può decidere di eliminare e sopprimere “perché ama”, o come quello di chi vede solo il proprio desiderio e non ha paura di schiacciare quello dell’altro.
Siamo così abituati a rimuovere la paura e a metterci al riparo dai sui attacchi che abbiamo perso la coscienza della sua utilità, del suo essere strumento di Thanatos e compagna e degna avversaria di Eros. Ma vedeva bene Jung quando faceva di Phobos (la paura), e non del potere, il vero opposto dell’eros: troppa paura ci spingerebbe a non prendere mai parte, a non innamorarci di niente, a non entusiasmarci; la sua assenza ci consegnerebbe invece nelle mani della coazione, asserviti a un istinto inconsapevole e capace solo di ripetere.
Scorrono nel labirinto della psiche, queste correnti… vanno ascoltate, pensate, assorbite, riflesse, parlate, raccontate, colte….